Se c’è un segreto di cui i giapponesi sono particolarmente gelosi è quello del sushi: difficilmente, infatti, gli shokunin lasciano il Giappone per mostrare la propria arte. L’eccezione che conferma la regola è il maestro Katsu Nakaji che invece crede sia importante farla conoscere al mondo.
Dopo la sua prima esperienza milanese al Ronin tra Febbraio e Marzo 2023, il maestro è nuovamente all’opera dietro al bancone omakase fino al 23 dicembre. Due servizi al giorno, alle 19:30 e alle 21:45, prezzo fisso 280 € bevande escluse. Nota di servizio: 280 euro sono tanti ma considerate che a Tokyo il menù degustazione parte da 420 dollari. E se mi date qualche minuto chissà che alla fine di questo post possa avervi convinto a prenotare uno di quei 10 posti a sedere.
Chi è Katsu Nakaji
Katsu Nakaji è il depositario di una tradizione, e di una cultura, che si tramanda di padre in figlio da più di un secolo. Il suo ristorante, Hatsune Sushi, è stato fondato nel 1893 a Kamata (Tokyo) e Katsu rappresenta la quarta generazione di shokunin che si sono susseguiti alla sua guida. Il maestro Nakaji questa tradizione secolare la interpreta con uno stile tutto suo. Uno stile particolare, quasi da rock star, che magari non si addice all’immagine composta che abbiamo dei giapponesi.
Ma la rock stare lascia il posto al maestro quando è il momento di mettersi all’opera. Niente viene lasciato al caso e tutto è studiato nei minimi dettagli. Ogni gesto, ogni strumento e ogni ingrediente sono il frutto di anni e anni di studio e ricerca. Per i giapponesi infatti il lusso non è tanto una bella sala o costosi accessori quanto la ricercatezza. La ricercatezza della radice di wasabi proveniente dalle pendici del Fuji, o quella di un aceto così pregiato da dover dimostrare di essere in grado di saperlo usare con il rispetto che merita. O la ricercatezza di un’abilità artigianale frutto di anni e anni di studio passati a perfezionare qualsiasi gesto per offrire solo il meglio ai propri commensali.
Il vero Omakase Giapponese
Omakase in giapponese significa “affidarsi“; un concetto che possiamo ritrovare nei nostri menù degustazione, anche il quel caso decidiamo di affidarci alle scelte dello chef. Ma l’omakase porta in sé un aspetto più profondo, quello del legame che si crea tra maestro e ospite. Immaginate il bancone come un palco: tu rispetti la performance tanto quanto il maestro rispetta la tua presenza offrendoti il meglio del meglio.
E non ho alcun dubbio che in più di due ore di cena io abbia mangiato il meglio del meglio. A cominciare dagli antipasti: polpo di Sardegna marinato in the verde e servito con una salsa aosanori, sashimi di spigola con salsa alle nocciole e uno strepitoso spiedino di ventresca e porro.
Il Sushi di Katsu Nakaji
Dopo questi bocconi preliminari è il turno del protagonista della serata, e non sto parlando del pregiatissimo trancio di tonno rosso che Nakaji appoggia con reverenza sul bancone bensì del riso. D’altronde, la parola sushi non indica l’insieme di riso e pesce ma significa all’incirca riso condito con aceto. Il riso, come da tradizione, viene cotto nel kamado, e conservato in una pentola di rame per mantenerlo alla giusta temperatura. Per condirlo, Nakaji utilizza un aceto di riso giapponese che non è neanche in vendita; per ottenerlo il produttore deve ritenerti capace e degno di usarlo.
La temperatura di servizio è uno dei dettagli fondamentali. Dimenticate riso e pesce freddi di frigorifero, il sushi andrebbe mangiato caldo. E “caldo” significa a circa 30 gradi. I motivi sono essenzialmente 3:
- Come accade anche con il vino rosso, a una certa temperatura i sapori si aprono di più
- 30 °C è anche la temperatura del latte materno, per questo ci sentiamo coccolati e al sicuro
- Quando il sushi nacque non esistevano i frigoriferi, per questo si utilizzava pesce cotto o sottaceto
Dopo aver condito il riso davanti ai nostri occhi è il momento del re dei pesci da sushi: il tonno rosso. Il maestro ci mostra il suo coltello personale (regalo della defunta moglie) e inizia a tagliarlo con rispetto infinito. Divide la parte magra, il filetto (akami), da quelle più grasse, l’otoro (la ventresca) e il chu-toro. Anche del tonno non si butta via niente e quindi gli scarti vengono trasformati da Hayato, l’assistente dello chef, in una tartare da utilizzare per un temaki.
Poi, con movimenti rapidi e precisi, si bagna la punta delle dita con l’acqua, prende del riso, il wasabi appena grattugiato, una fettina di pesce e chiude con una spennellata di salsa di soia (o in alternativa un pizzico di sale dal Giappone) prima di metterti il nigiri in mano, ancora tiepido. E qua veniamo agli altri due dogmi del “sushi occidentale”: salsa di soia e bacchette.
Niente bacchette: il vero sushi si mangia con le mani. Nakaji ci passa ogni singolo nigiri sulle dita e lo si mette in bocca dalla parte del pesce, si aspetta qualche secondo, si mastica e la magia si sprigiona in bocca. Niente ciotolina in cui affogare il nigiri nella salsa di soia: ogni singolo pezzo viene insaporito dal maestro con una precisa pennellata.
Non Solo Tonno
La cena prosegue lenta; ogni ingrediente ha la sua storia e la sua peculiarità. Le mani di Katsu Nakaji si muovono quasi stessero danzando preparando un nigiri dopo l’altro. Arriva l’anguilla, poi il gambero rosso (quello di Mazara, per cui lo chef ha una predilezione particolare) e infine il calamaro. Non manca neanche la carne di wagyu Kobe A5 (ovviamente la più pregiata), leggermente scottata in olio bollente.
Ormai incantati da ogni singolo gesto del maestro, arriviamo al gran finale. Il viaggio tra le prelibatezze della tradizione giapponese culmina nel sushi di otoro, la parte più grassa del tonno, marinato nella salsa di soia e poi cotto a fuoco vivo sulla paglia. Il pesce si scioglie letteralmente in bocca e difficilmente riesco a ricordare qualcosa di meglio di quel piccolo, meraviglioso, boccone.
In poco più di due ore di cena Nakaji ha stravolto la maggior parte dei luoghi comuni sul sushi “occidentale”. Parliamo spesso, a volte anche a sproposito, di “esperienza” quando ci si accosta a ristoranti più o meno stellati. A volte è vero e a volte lo è meno. Ecco, questo è decisamente il primo caso: in quelle due ore abbiamo dimenticato tutto quello che sapevamo sul sushi per impararlo da zero. La grandezza di Nakaji è proprio questa: non è geloso dei propri segreti e delle proprie conoscenze. Anzi, è dietro quel bancone proprio per condividerle coi suoi ospiti. Ci fa guardare, ascoltare, toccare e assaggiare, spiega e risponde, tutto con un entusiasmo e una passione che diventano subito travolgenti e che è difficile incontrare. Vero, il prezzo è alto; ma forse questo è uno di quei casi in cui poter davvero dire “ne vale la pena”.